6.5.11

Una deviazione



Se in una delle mie tante vite Stefano Picarazzi mi fosse stato compagno di parole notturne avremmo condiviso soste accovacciate sotto le fenditure del Palazzo Pretorio: davanti agli occhi il Bacchino del Tacca, intento dal Seicento a far da fontana col suo cinci al vento; sopra la testa il precipizio tra le smerlature e noi in attesa e sfida: a chi dei due il Piccione avrebbe cacato sulla testa? Come me, Stefano non avrebbe barato. Come me non avrebbe portato né coppola né berretto né basco né cappello. Va’ a sapere in quale luogo – in quale ucronìa – questo ragazzo è diventato Linguaggio? Dice Picarazzi: “Mi piacerebbe che tu scrivessi la mia biografia”. Incerto tra “Wow” e “Miiiiiii”, scelgo “Minchia!”. Convengo che è la decisione giusta: non so niente di lui. Ma io so che lui sa la cosa essenziale: non ha “biografia”. Altrimenti non m’avrebbe offerto di giocare con la sua vita. So quel che vedo. Vedo che la vita di Stefano c’era prima delle sue date e dei suoi luoghi, cioè vedo che consiste nel preciso momento in cui io vado nel luogo dove so di trovarlo. Lui è lì. Il nostro sguardo si incontra ogni volta in un punto illusorio tra la rammemorazione infinita e l’appuntamento per l’indomani. Non diciamo più nemmeno la frase “ci dobbiamo parlare”. Di che cosa? Dei “fatti”? 

Picarazzi ha un’età indefinibile tra i tre anni di Georges Bataille e i secoli di Noè. Quello che è non l’ha di certo imparato nel tempo. Dove avrebbe potuto imparare la Grazia dell’assenza di metodo? La benedizione del Lichtung? Per esempio, Stefano Picarazzi è anche Ste Fanzini. Ma non come Boris Vian è stato Vernon Sullivan. E nemmeno come Galileo è stato Sidereus Nuncius. Come niente. Oppure come “perché sì”. Ho davanti agli occhi più o meno quegli oggetti che sono riprodotti in queste pagine e che vengono esposti in forma di “mostra” in giro qua e là. L’unica cosa che assomigli ad una biografia. Già dire questo è un vizio letterario, ma sempre meglio che chiamarli quadri oppure Opere dell’Artista. Pura cretineria poi sarebbe situarli, questi oggetti – queste Forme – nella barzelletta delle Epoche e degli Stili. Come un Umano integralmente inscritto nella sua Essenza, e dunque non come artefatto della Storia, Stefano Ste Picarazzi Fanzini, piglia in mano un foglio, una superficie o uno schermo di luce, e vi traccia quel che gli pare, quel che gli appare. Lascia tracce di sguardo, di Iki, di passi, di costrutti, di bàttiti. Ma non lasciamo smarrita nelle righe qui sopra l’espressione “quel che gli pare e appare”: forse non sono stato mai così vicino a dire una Cosa di Stefano Picarazzi: quel che gli pare è dunque il contrario dell’arbitrario, del capriccioso, del bizzoso: quel che gli pare è quel che gli appare: quel che il Sein sornione e accudente gli détta, Stefano lo fa. Ma anche il Leonardo faceva così, sei già pronto a dire. E i  popoli scritti nel mito della forma e della liturgìa non facevano così? Come i Dogon africani, per esempio. E non faceva così Picasso, un po’ per delirio un po’ per quattrini? E quello che io considero il più grande disegnatore del secolo XX, Marco Carnà, non ha sempre fatto così? Sì ma avevano modelli o, con la maestria del tempo e delle dottrine, di ogni modello fissavano un metodo. Ma questo spaesato viandante del segno che mi sta qui davanti, che modelli ha? Non c’eravamo tutti messi d’accordo – almeno dai tempi di Gombrich e Adorno e Warburg – sulla fine dell’Arte!? E non s’è forse modificato il braccio del Mestiere? E la misura dell’Archetipo? E lo Stile? Non lo vedete che l’hanno cacciato tra il quadrilatero della moda e alfonso signorini? E i monumenti funebri al Moderno – i James Joyce, gli Schonberg, i Mario Merz – non li vedete ficcati a forza negli Expo e negli Eventi, loro che sembravano chiamati a sventrare gli spazi aperti del secolo XX… Scusa se ti do del Lei, Lettore: ma lei ha una pallida idea di come vive oggi un ragazzo – e per giunta figo – che può fare quel che gli pare/appare?

Torniamo al Tu. Guàrdati tutte queste Cose di Stefano Picarazzi. Spòstati dalle pagine e mettiti davanti alle loro trasformazioni in “Quadri appesi” da qualche parte in Mostra. E non cercare di chiamarle per nome. Làscia che siano loro a chiamarti.
Potrai dire che non tenevi chiusa la porta di casa quando Stefano Picarazzi – viandante dell’essere – passava di lì. Che l’hai fatto entrare senza chiedergli il Nome. E non ti sei più fatto abbandonare. 

Girolamo Melis

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